Andrea Vaccaro – Rassegna di Teologia, 2014, anno LV, n.2, aprile-giugno.
Sommario
Nel panorama della filosofia contemporanea si è affacciata una nuova figura denominata «metafisica digitale» che “traduce” le immagini metafisiche classiche nel linguaggio del mondo del computer: dal Grande Orologiaio o Architetto al Divino Hacker, dall’atomo al bit, dal Fiat lux all’Enter. L ‘ Autore tratteggia le linee principali di questa nuova filosofia e offre qualche considerazione sulle richieste di confronto con la teologia che la metafisica digitale esplicitamente pone.
L’espressione “digitale”[1] rimanda, in senso lato, al mondo del computer; l’associazione di questo mondo con la teologia necessita di qualche previa giustificazione. La più immediata: il mondo del computer (cyberspazio, infosfera, realtà variamente virtuali, ecc.) è diventato un ambiente quotidiano in cui gli esseri umani sono immersi come «i pesci nell’acqua»[2]. Ogni riflessione che abbia al centro l’umanità di oggi deve considerare il suo ambiente e, quindi, fare lo sforzo di passare dallo studio dell’homo sapiens a quello dell’homo technologicus [3]. Il mondo del computer, per di più, non si limita a condizionare il comportamento quotidiano, ma agisce anche, ad un livello più profondo, sulle categorie con cui l’essere umano oggi pensa se stesso e la realtà circostante: «influenza i modi in cui gli scienziati costruiscono le loro intuizioni sul mondo fisico»[4] e influenza i modi in cui alcuni filosofi costruiscono le loro intuizioni sul mondo metafisico. E in effetti, nel mondo del computer, sta prendendo chiara forma una vera e propria metafisica, che potremmo definire, appunto, “metafisica digitale”. È questa la giustificazione più forte per un confronto con la teologia.
Metafisica digitale
Di cosa è fatta la realtà? Quale principio regola il divenire che va dal semplice al complesso? Quale il ruolo dell’essere umano in tutto questo? E, soprattutto, esiste una realtà trascendente? La filosofia digitale si pone frontalmente dinanzi a tali interrogativi ed è pertanto difficile non riconoscere, nelle sue risposte, una portata metafisica.
In via orientativa, la filosofia digitale non può prescindere dai nomi storici di Alan Turing e Johann von Neumann – padri fondatori, spesso idolatrati, della computer science; sono, inoltre, da menzionare il fisico tedesco Konrad Zuse, autore del pionieristico Rechnender Raum[5] del 1969; John Archibald Wheeler, già collega e collaboratore di Niels Bohr e Albert Einstein; Edward Fredkin, che ha imposto il nome «filosofia digitale»; Stephen Wolfram, genio riconosciuto nell’applicazione dell’informatica alla matematica e alla fisica; Gregory Chaitin, forse il più noto in Italia in virtù dei suoi best-seller scientifico-letterari[6]. Proprio quest’ultimo, in una pagina di ricognizione sulla filosofia digitale, dopo aver citato gli autori sopra elencati insieme ad altri ancora, non teme di qualificare i loro studi come «opere di metafisica»[7].
Di cosa è fatta la realtà?
Non è irragionevole supporre che l’informazione sia al cuore della fisica proprio come al cuore di un computer. It from bit, ovvero, ogni ente, ogni particella, ogni campo di forza, lo stesso continuum spazio-temporale, deriva la sua funzione, il suo significato, la sua esistenza interamente (anche se a volte indirettamente) dal porre domande sì/no, scelte binarie, bit e dal registrare le risposte dell’apparato sperimentale. It from bit simboleggia l’idea che ogni componente del mondo fisico ha al fondo – spesso, molto al fondo – una fonte immateriale ed una spiegazione immateriale[8].
Quando nel 1990 Wheeler, il “grande vecchio” dell’astrofisica, enunciò queste parole, fu come se una diga si fosse infranta, e masse di scienziati poterono liberare il loro pensiero senza necessariamente essere considerati eccentrici o, peggio, out of the wall. Occorreva un capo carismatico ed un segno di riconoscimento affinché un’intuizione serpeggiante in vari luoghi potesse prendere forma e stima di sé. Il carisma lo prestò Wheeler; il segno distintivo divenne la formula «it from bit»: ogni cosa fisica, ogni realtà materiale derivano dall’informazione. È l’informazione il vero, ultimo, definitivo costituente dell’universo. Kevin Kelly, in God Is the Machine – uno dei primi segnali giunti ad avvertire della novità filosofico-scientifica – usa parole nitide:
Il bit può essere visto come una versione digitale degli atomi della Grecia antica: il più piccolo costituente dell’esistente. Questi nuovi atomi digitali, però, non sono la base solamente della materia, come per i Greci, ma anche dell’energia, del moto, della mente e della vita[9].
Kelly non è il solo a ricorrere alla filosofia antica e alla sua prima riflessione sul cosmo per spiegare lo statuto dell’informazione nella nuova ontologia. Altri fanno tornare in mente addirittura il vecchio concetto di arché. William Duncan, direttore dei Sistemi d’informazione alla Boeing Aircraft di St. Louis, in The Quantum Universe: An Information Systems Perspective, parte da lì per rispondere alla domanda cruciale:
Quale è l’elemento fondamentale della nostra realtà? I primi filosofi teorizzarono che l’elemento più fondamentale dell’universo fosse l’acqua. Poi, come la conoscenza scientifica cominciò a maturare, la nostra visione dell’universo divenne più complessa e per molti anni fu convinzione largamente accettata che i quattro elementi primari del nostro universo fossero terra, aria, acqua e fuoco. Più tardi ancora, le indagini si sono concentrate intorno agli elementi chimici, poi alle strutture molecolari, agli elementi atomici, agli elettroni, ai quark, e così via. Più recentemente, l’avvento della fisica quantistica e dei concetti della meccanica dei quanti, ha convinto alcuni dei principali pensatori del mondo che il mattone di costruzione più fondamentale dell’universo percepibile non è alcuno di questi. Esso è, in realtà, l’informazione[10].
Questo suona inevitabilmente strano, soprattutto per l’impalpabilità del concetto di “informazione”. Sono stati, tuttavia, proprio i fisici, e non certo pensatori misticheggianti, a spingere verso un irreparabile sgretolamento del concetto di “materia” e – passando attraverso i concetti di forza, energia, punti di campo – ad avventurarsi in spazi categoriali sempre più ineffabili. Rimane sospesa la domanda su cosa sia e di cosa sia fatta, a sua volta, l’informazione, ma questo è il destino ineluttabile di ogni principio primo. È l’asimmetria linguaggio-realtà a creare il disturbo. La domanda: «di cosa è fatto», al pari di quella del «perché», può girare ricorsivamente all’infinito, mentre il regresso nell’ordine della natura fisica in un punto si deve necessariamente fermare. Quel punto, adesso, è l’informazione. «In principio era l’informazione»[11]: così recita la nuova genesi della filosofia digitale. In The World of Evolving Information, il ricercatore dell’Università autonoma del Messico Carlos Gershenson cerca di spiegare come sia possibile uscire dal circolo vizioso. «È complicato descrivere quest’informazione in termini di materia ed energia. Noi, però, proponiamo l’approccio opposto: descrivere materia ed energia in termini d’informazione»[12]. Tale “approccio opposto” è decisamente vantaggioso, continua Gershenson, perché se «le leggi fisiche sono idonee a descrivere i fenomeni nella scala fisica, le leggi dell’informazione sono adatte per descrivere i fenomeni ad ogni scala»[13]. Nel linguaggio dell’informazione si possono effettivamente tradurre tutti i fenomeni che stanno tra le microparticelle e le galassie, compresi i sistemi, le reti, i comportamenti intenzionali. L’informazione è «un formalismo che può contenere tutti gli altri formalismi»[14]. Con Gershenson siamo, in realtà, scivolati dal piano ontologico a quello epistemologico, rinnovando un discorso inaugurato negli anni Trenta con la Macchina Universale di Turing, che aprì il sipario sull’immenso potere della cibernetica, come poi la tesi Church-Turing e i rivoluzionari studi di John von Neumann, Norbert Wiener, Claude Shannon confermarono[15]. Ci vuole Edward Fredkin per riportare la barra dritta sull’obiettivo. Robert Wright, nel suo Three Scientists and Their Gods, riserva al genialoide ex-docente di Fisica digitale al Massachussetts Institute of Technology (MIT) una simile introduzione:
Alcuni dicono che l’informazione è solo una delle molte forme della materia e dell’energia, incarnata in cose come un elettrone del computer o una scarica neurale del cervello, oppure un giornale o un’onda radio, e questo è quanto. Altri dicono, in termini più imponenti, che l’informazione merita pari dignità di materia ed energia, e che questi dovrebbero essere congiunti in una specie di Trinità scientifica, i tre principali ingredienti della realtà. Fredkin va ancora oltre: per lui, l’informazione è più fondamentale della materia e dell’energia. Crede che atomi, elettroni e quark consistano, al fondo, di bit[16].
L’essere stato sempre alternativo ai circuiti accademici tradizionali – sia da studente che da professore universitario, titolo guadagnato senza neppure il titolo di bachelor – non ha precluso a Fredkin di diventare miliardario con il business degli strumenti informatici da lui stesso inventati e, in più, gli ha consentito di far fiorire liberamente un giardino di pensieri con semi propri, ovvero quelli che derivano dalla sua «naturale» prospettiva digitale. La pianta più bella, al centro, è ovviamente l’informazione. Nell’incalzante intervista durata un’intera giornata che il divulgatore scientifico Wright ottenne, restando ospite nell’isola caraibica privata di Fredkin, lo scienziato espresse nella forma più accessibile e rotonda la sua visione del mondo, che ruota interamente intorno al concetto di «informazione»:
Non credo ci siano oggetti come elettroni e fotoni, o cose che siano loro stesse e nient’altro. Credo piuttosto che ci sia un processo d’informazione e i bit, quando sono in certe configurazioni, si comportano come le cose che chiamiamo “elettroni”, “atomi d’idrogeno”, ecc.[17].
Come un acrobata che cammina su una corda tesa tra fisica e metafisica, Fredkin modula in più toni la portata totalizzante dell’informazione:
Ci sono tre grandi domande filosofiche: cos’è la vita? cos’è la coscienza, il pensiero, la memoria e quant’altro? come funziona l’universo? […] Il punto di vista informazionale le copre tutt’e tre[18].
Sembra lecito sperare che almeno Fredkin, specie in un contesto tanto informale, aiuti a comprendere maggiormente la natura dell’informazione, ma la sua impostazione non fa che sottolineare l’assurdo del chiedere ancora quando si è davanti alla “materia” ultima.
«Per ogni cosa del mondo per cui chiedi “di cosa è fatto?”, l’unica che conosco per cui la domanda non deve trovare risposta con qualcos’altro è l’informazione»[19]. Si può restare contrariati, ma questa contrarietà non fa che riconoscere la verità enunciata da Fredkin. Dopo tutte le spiegazioni, rimane, alla fine, sempre un’ultima domanda. Ovvero, qualche bit d’informazione. Si cerca disperatamente l’ultima risposta. Ovvero, un bit d’informazione.
Quale legge regola il divenire?
Una volta accolta l’ipotesi che il costituente ultimo della realtà sia l’informazione, è consequenziale eleggere i principi del processo informazionale a leggi del divenire della realtà medesima. Anche le immagini euristiche mutano al passo del progresso tecnologico: gli ingranaggi meccanicistici costruiti sapientemente dal Grande Orologiaio lasciano così il posto alle stringhe di programma caricate dal Grande Hacker[20]. Stanislaw Lem, nel 1964, scrisse un’opera evocativamente intitolata Summa technologiae[21], ma la vera summa della nuova visione è il testo A New Kind of Science di Stephen Wolfram, uno straordinario caso editoriale americano del 2002. Wolfram, classe 1959, è stato un enfant prodige che, da adulto, non ha tradito le attese, tanto che Terry Sejnowsky, co-autore de Il cervello computazionale[22], lo definisce «lo scienziato più intelligente del pianeta».
A New Kind of Science[23] – 1200 pagine di testo e figure, mezzo milione di battute, centinaia di chilometri con il mouse – poggia in maniera consistente sull’idea degli automi cellulari come chiave del divenire cosmico. Gli automi cellulari sono strutture matematiche dinamiche, studiabili adeguatamente (o anche “contemplabili”) al computer, che possono essere usate come modello per l’evoluzione dei sistemi complessi non solo matematici, ma anche fisici e biologici (è impressionante, ad esempio, il modo in cui gli automi cellulari, da regole semplicissime, portino alla “costituzione digitale” di forme complesse come le strutture dei fiocchi di neve, dei gusci di conchiglia, delle venature di una foglia, del manto maculato di un leopardo, dei gorghi e dei flutti d’acqua, del fungo termonucleare di un’esplosione atomica …)[24]. Si tratta di un metodo scientifico nuovo (da cui, appunto, un «nuovo tipo di scienza», la traduzione italiana del titolo del volume), nato con i computer e in certa misura anche da questi “suggerito”, i cui confini epistemologici sono ancora da delineare, ma sui quali Wolfram non ha timore di trarre le conseguenze estreme: la struttura degli automi cellulari è speculare alla struttura delle più complesse forme di natura (che, fra l’altro, sono tutt’oggi prive di una esaustiva spiegazione scientifica) per un unico motivo: perché le regole che governano quel programma informatico sono le stesse che governano i processi fisici del nostro universo. Il divenire del nostro universo segue le leggi di un processo informazionale. In breve: la Natura computa. È questa, per Wolfram, la più grande scoperta del XX secolo: la computazione come chiave segreta della Natura. «We are run by a short algorithm»[25] (siamo fatti girare su un algoritmo breve), dice, da parte sua, Jürgen Schmidhuber in A Computer Scientist’s View of Life, the Universe, and Everything. «In un certo senso, la Natura sta continuamente computando il “prossimo stato” dell’universo, da miliardi di anni; tutto quello che dobbiamo fare – e, effettivamente, tutto quello che possiamo fare – è “farci un giro” su questa enorme computazione che va», gli fa eco Tommaso Toffoli dal MIT[26]. Chaitin è ancora più esplicito: «L’eredità intellettuale dell’Occidente – Pitagora, Platone, Galilei – statuisce che “Tutto è numero e Dio è un matematico”. Adesso stiamo iniziando a credere a qualcosa leggermente differente, un raffinamento del credo originale di Pitagora: “Tutto è software e Dio è un programmatore”»[27]. E, a suggello, può aggiungere la sua frase-simbolo: «All Is Algorithm!», «Tutto è algoritmo!».
Oltre ai filosofi digitali, vi è anche uno schieramento di “fisici digitali” che si va compattando, con in avanscoperta qualche porta-insegne ben riconoscibile. Uno di essi è Vlatko Vedral, docente di Teoria dell’informazione quantistica all’Università di Oxford e a quella di Singapore, con il suo Decoding Reality[28], una rilettura affascinante di fisica classica, fisica quantistica, biologia e perfino religione, condotta sotto la lente dei bit. Un altro è lo scienziato del Dipartimento di Fisica atomica dell’Università di Oxford David Deutsch, che ha perfezionato l’It from bit in un It from qubit (informazione quantistica) e rilegge tutte le questioni di fisica teorica come questioni computazionali e queste ultime, a loro volta, come questioni di information processing[29]. Il vero capofila, tuttavia, è il docente di Ingegneria quanto-meccanica al MIT, Seth Lloyd, il cui libro Programming the Universe ha avuto nientemeno che l’onore di essere già tradotto in italiano[30]. Questi non solo aggiunge la sua voce al robusto coro inneggiante all’universo che computa, ma addirittura si spinge a calcolare quanta informazione l’universo intero, al pari di ogni altro sistema fisico, ha registrato e processato nel corso della sua storia. Con un’elaborazione che Lloyd descrive dettagliatamente in alcuni suoi testi[31] e che combina densità della materia nell’universo, energia disponibile, età in secondi, costante di Planck, teorema Margolus-Levine e qualche altro ingrediente, si arriva ad indicare come «il computer cosmico, dall’inizio, ha computato 10 elevato alla 122 operazioni elementari su 10 elevato alla 92 bit»[32]. Una cifra esorbitante se si pensa al numero di zero che stanno dietro l’uno in questo totale, ma che non disorienta più di tanto Lloyd, che si permette di considerare: «enorme, ma pensavo di più!»[33]. Ecco l’inizio del suo calcolo straordinario:
Prima del Big Bang? Nulla. Non esisteva né il tempo, né lo spazio. Nessuna energia, nessun bit. L’informazione dell’universo era pari a zero bit, perché non esisterebbero alternative a quell’unico stato. Un miliardesimo di secondo dopo il Big Bang (il tempo in cui la luce percorre circa trenta centimetri), l’universo ne aveva già 100.000 miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di m[34]iardi (10 elevato alla 50), cioè tanti bit quanti gli atomi che formano la Terra. Il Big Bang è stato anche un Bit Bang34.
Esiste una realtà trascendente?
All’interno della filosofia digitale, uno spazio consistente è riservato alla riflessione su una dimensione Totalmente Altra. Parafrasando il titolo del libro di Wolfram, anche in questo caso si tratta, tuttavia, di «un nuovo tipo di trascendenza»[35]. Questa trascendenza è responsabile della creazione e della conservazione in vita dell’universo, anche se, sembra, non per un gesto d’amore; ha natura immateriale, anche se non le calza perfettamente la qualifica di spirituale e, nel caso, si tratterebbe di una «spiritualità desacralizzata»; riserva all’umanità un posto privilegiato nell’universo, in quanto l’essere umano è l’unica creatura in grado di “conoscerla” coscientemente (più con la ragione che con il cuore), anche se questo primato corre seri rischi dopo l’avvento del computer. Si tratta di una dimensione che, nell’inevitabile foschia di ogni panorama metafisico, lascia percepire due fulgenti verità: la presenza certa di un Creatore (lo si chiami pure Grande Programmatore, o Divino Hacker, o Primo Instanzializzatore …) e la consistenza digitale della realtà. Una sorta di novello Regno delle Idee algoritmiche, che contiene l’essenza digitale di ogni realtà storicamente concretizzata, ma anche quelle realizzande imminentemente o remotamente, nonché quelle che non avremo modo di vedere, per limiti di tempo, sulla scena di questo mondo. Un universo computazionale che richiama, con le dovute differenze, il Dissertatio de arte combinatoria (1666) di Leibniz, il sistema di scrittura universale comprendente tutte le possibili modalità di significato del pensiero umano, o il cosmo musicale immaginato da padre Marin Mersenne (1588-1648), che conteneva tutte le melodie rese possibili dalla combinazione delle note. O ancora, in tempi più recenti, la biblioteca di Babele narrata da Jorge Luis Borges nell’omonimo racconto del 1941 ora inserito nella raccolta Finzioni, che accoglie la totalità dei libri già scritti, nonché tutti quelli che si potranno mai scrivere esaurendo gli accostamenti possibili tra le parole. In maniera meno tortuosa, Chaitin giunge al punto: questo universo computazionale altro non è se non quello che, in altre epoche, era pacificamente detta «la mente di Dio»[36]. Da questa prospettiva, Danny Hillis può ragionevolmente parlare del «carattere quasi mistico» della computazione[37]. Anche Fredkin guarda lo stesso orizzonte e nutre la medesima convinzione: la sua ricerca è indirizzata, afferma, verso quello che chiama «il Motore Primo e la Causa del Tutto»[38].
Il richiamo esplicito nell’ambito della metafisica digitale a categorie religiose è troppo ricorrente e forte per essere trascurato. Abbiamo già incontrato espressioni come «all’inizio era il bit», «la mistica del processo informazionale», «il demiurgo degli algoritmi», oppure immagini quali «il dio hacker» o titoli di articoli del tipo «Dio è la macchina». Nella sua permanenza all’Istituto di Santa Fe per respirare personalmente il nuovo clima, l’antropologo Stefan Helmreich rimase impressionato dal numero di ricercatori del posto che, per spiegargli i loro concetti, lo invitavano a «pensare teologicamente»[39]. Quello che frequentemente è semplice “consumo” di categorie religiose si fa talvolta espressa richiesta di dialogo e confronto. Chiede Michael S. Malone nel suo God, Wolfram and Everything Else: «ma cosa diranno i teologi quando vedranno una teoria che propone che l’intero universo possa essere iniziato da un primo motore, usando una dozzina di regole?»[40].
Cosa ne diranno i teologi?
È difficile pensare che il commento dei teologi nei confronti delle idee della metafisica digitale possa essere irreggimentato in un unico modello. Dovrebbe essere ormai noto anche all’esterno che, nell’ambito teologico, dimorano sensibilità, orientamenti, accentuazioni diversissime. La valutazione si fa pertanto personale ed ogni contributo su un nuovo fenomeno culturale è da armonizzare con quelli che già ci sono, in attesa di quelli che verranno. Come primo avvicinamento a queste nuove sollecitazioni – e per non lasciar cadere occasioni o richieste di confronto che provengono dalla cultura contemporanea – si propongono qui tre semplici ordini di considerazioni. Il primo sottolinea la soddisfazione di veder rifiorire, nel terreno della filosofia contemporanea, un pensiero metafisico. Le peculiarità di tale metafisica – sia nella componente linguistica, sia in quella “iconografica” – sono lontanissime e quasi disorientanti se confrontate con le antiche immagini della metafisica classica o della tradizione cristiana, ma questo è, in fondo, secondario e contingente (cioè legato alla temperie culturale) rispetto al nucleo teorico – questo sì davvero essenziale – che pone l’esistenza di una realtà trascendente, autrice del Tutto e garante del suo dispiegamento secondo un ordine razionale prestabilito. Una realtà trascendente non-materiale – anche se informazionale più che spirituale[41] – che garantisce contro la casualità e l’insensatezza. Guardando a ciò che unisce piuttosto che a ciò che divide, non possiamo non riconoscere, in questa nuova metafisica, suggestioni affascinanti, come quella espressa da Chaitin nella sua Metabiologia, che invita a leggere il divenire della storia non più governato dal concetto di “competizione”, tipo “gene egoista”, bensì da quello di “creatività”, in cui la molla del movimento del singolo individuo e del Tutto non è la lotta orizzontale a discapito dei consimili, ma un tensione interiore, che ha una possibile rappresentazione nel percorso «buddista verso l’illuminazione» o nell’«avvicinamento mistico a Dio»[42] di tradizione cristiana. Altrettanto significativa è la sottolineatura dell’Alterità della sfera trascendente così come è narrata, ad esempio, dall’aneddoto di Fredkin, che può essere posto accanto a quello agostiniano, celebre, del bimbo sulla riva dell’oceano. Attingendo ai ricordi d’infanzia, Fredkin racconta come, un giorno, tentò di spiegare il concetto alla sorellina[43]. Le chiese di immaginare Dio nella sua stanza, comodo sul divano davanti ad un tavolo con tè e biscotti. All’improvviso Dio si addormenta e nel suo immenso sogno – proporzionale al soggetto sognante – compare l’universo dall’origine fino ad ora, con tutte le storie di tutte le persone, comprese le nostre. Dentro al sogno, le persone possono fare ogni cosa e, in effetti, fanno di tutto. Solo una cosa è loro preclusa, conclude Fredkin, «arrivare ad assaporare i biscotti posti accanto al tè, sul tavolo davanti a Dio» [44]. E ciò per dire che possiamo progredire in ogni ramo della scienza, ampliare ogni tipo di conoscenza del mondo in cui siamo, ma le risposte che davvero ci soddisfarebbero stanno oltre la portata della nostra mano. Si possono fare solo ipotesi o salti senza rete. Fredkin stesso avanza un’analogia moderna, in linea con i costrutti della filosofia digitale, alquanto audace. L’essere umano costruisce computer per risolvere problemi; se l’universo è il Computer Cosmico creato da Dio, probabilmente anch’Egli aveva un problema da risolvere. Tra i vari tipi di problemi – anche se questo non è Fredkin a dirlo – esiste pure quello dell’amore.
Accanto agli aspetti “armonizzabili” con la teologia, non sono da nascondere, all’interno della metafisica digitale, avanzamenti su piste chiaramente ereticali, di stile gnostico e panteistico. Chi pregustasse con morbosità reazioni infuocate da parte della Chiesa – come sembra sottendere Malone, con l’interrogativo da cui siamo partiti – rimarrebbe però ampiamente deluso. Sebbene il custodire e il diffondere la verità siano compiti costitutivi della Chiesa, i tempi dell’anathema sit, o dei testi contra Judeos o contra Gentiles o altri, sono ad una lontananza teologica siderale e «l’acquiescenza manifestata, specie in alcuni secoli, a metodi di intolleranza e persino di violenza nel servizio della verità» costituisce ormai per la Chiesa stessa solo un motivo di esplicito e doloroso pentimento[45].
La seconda considerazione intorno al rapporto tra teologia e metafisica digitale investe il tema dell’inculturazione del messaggio cristiano. È palese che il nostro linguaggio, con le varie situazioni da “resettare”, gli “input” da lanciare, le immagini da “taggare”, sia stato largamente “riconfigurato” tramite la terminologia digitale. Anche le categorie concettuali vanno in quella direzione, come mostra emblematicamente la riproposizione del dualismo mente-corpo con quello software-hardware, così diffuso in filosofia della mente. Parlare di cultura digitale per designare la nostra epoca non sembra quindi eccessivo. È da indovinare dunque come modulare il contenuto cristiano attraverso il nuovo strumento linguistico-concettuale. Un assaggio lo hanno preparato gli stessi filosofi digitali, anche se con spirito talvolta provocatorio. Come quando Kelly, nel già citato God Is the Machine, rivisita il famoso passo biblico: «Nel Vecchio Testamento, quando Mosè chiese al Creatore “Tu chi sei?” questi, in effetti, dice: “Io Sono”. Un bit. Un bit onnipotente. Sì. Uno. Esisto. Il più semplice stato possibile»[46]. Oppure quando sostituisce il Fiat lux con l’Enter della tastiera del computer, e il Dio Architetto lascia il posto al Dio Hacker. Ad un primo impatto, queste sono immagini che destabilizzano e, in certa misura, anche irritano, ma è tutto da valutare il perché le miniature del Dio Architetto dell’universo con l’enorme compasso in mano, così frequenti nelle Bibbie medievali (si pensi alla miniatura del Dio Architetto nella Biblia de San Luis o a quella, ancor più famosa, nella Bible Moralisée) possano trovare posto nell’iconografia della Chiesa ed aiutare anche la fede dell’orante, mentre una ideale raffigurazione del Dio Hacker, con in mano un nuovo strumento tecnologico (computer) al posto di quello in uso allora (compasso) debba stravolgere il concetto. In fondo, è il messaggio e il rinvio simbolico che conta, anche se l’abitudine di una vita a certe forme non è facilmente sostituibile. Per le nuove generazioni, però, si pone il problema opposto. Il linguaggio legato al mondo agricolo e a quello della pastorizia con cui si esprime il Vangelo ha parlato al cuore e all’intelletto di tutte le persone per quasi venti secoli, ma il cambiamento socio-culturale in atto ha una velocità inusuale ed è da soppesare quanto dica ad un giovane d’oggi un’espressione tipo: «Egli ha in mano il ventilabro per ripulire l’aia e per raccogliere il frumento nel granaio; ma la pula, la brucerà con fuoco inestinguibile» (Lc 3,17). Probabilmente, insomma, oggi, dalle giovani generazioni, è recepito in modo più immediato “un cracker[47] che invia un virus” che “un contadino che semina zizzania”. È un aspetto da calcolare in un momento ove adottare tutte le strategie utili per diffondere e rendere significativo il messaggio evangelico – senza, ovviamente, snaturarlo –: è l’imperativo della nuova missionarietà. Fra i molti altri aspetti che potrebbero – forse, dovranno – essere ancora considerati, merita almeno alcune righe il concetto di «informazione»[48]. La riduzione di ogni essere reale, compreso l’essere umano, a mera informazione ha già sollevato le critiche di buona parte della cultura, non solo di stampo cattolico. Anche nel mondo della stessa tecnologia – si pensi ad esempio al pioniere della Realtà Virtuale, Jaron Lanier – c’è una netta reazione contro quello che spesso è definito «totalitarismo cibernetico»[49], che interpreta cose e persone alla stregua di puri «modelli cibernetici». Le intenzioni che sorreggono tali risposte critiche sono in larga parte condivisibili. Per cercare, però, il lato buono in ogni posizione, è pure da rilevare che il concetto di “informazione” ha forte assonanza con quello di “forma” e che il perno dell’antropologia cristiana, a partire da san Tommaso, è stato il principio dell’anima forma corporis. E, concomitantemente, un’escatologia descritta in termini informazionali potrebbe facilitare il compito teologico molto più che il linguaggio tradizionale vincolato al dualismo ontologico anima-corpo. Un teologo dalla pubblicistica molto apprezzata, Giordano Frosini[50], è solito ripetere, con argomentazioni assai convincenti, che, di fronte alle critiche filosofiche ottocentesche, il cristianesimo è il «vero materialismo», perché ruotante sui concetti di «creazione buona» e di «palingenesi cosmica». Ebbene, non è escluso che tra qualche tempo, con un po’ di esercizio filosofico-teologico, si potrà qualificare il cristianesimo come il «vero informazionalismo», perché basato su un principio immateriale che organizza e governa tutto ciò che è materiale.
Questo ci conduce linearmente al terzo ordine di considerazioni sul rapporto teologia- metafisica digitale. Cosa diranno i teologi della metafisica digitale? Probabilmente, al di là dei commenti su frasi ed immagini a effetto, sempre concettualmente elaborabili- plasmabili-capovolgibili, essi guarderanno ai comportamenti mossi dalla nuova corrente di pensiero. La cultura digitale, talvolta, ha già positivamente sorpreso con modalità tipo lo stile free o quello open source, che caratterizzano la cosiddetta «etica hacker»[51]. I concetti di dono, di passione gratuita e di condivisione sono qui riapparsi con veste decisamente nuova e avvincente. Inoltre, sul piano delle relazioni interpersonali, essa ha messo a disposizione strumenti di comunicazione fino a poco tempo fa impensabili. Ebbene, se la metafisica digitale continuerà a rafforzare questi aspetti, non potrà che guadagnare sempre più larghi apprezzamenti. Se, in futuro, sarà invece addomesticata alle logiche del potere, dell’interesse privato e dello sfruttamento dell’altro – a cui si sono sottoposte, alla fine, tutte le ideologie degli ultimi secoli –,la sua valutazione non potrà che cambiare segno. Ultimativamente, come sempre, la qualità dell’albero è giudicata dai suoi frutti.
NOTE
[1] Il termine “digitale” deriva dall’inglese digit, in italiano “numero”. In ambito informatico – dove la parola si è affermata –, “digitale” riguarda la modalità di codifica dell’informazione. La codifica digitale trasforma ogni segnale di trasmissione in un linguaggio costituito solo da 0 e 1. Per questo motivo, essa è detta anche “codifica binaria”. Gradualmente, tutti i settori di elaborazione-trasmissione dell’informazione (radio, telefonia, supporti musicali, fotografia, televisione, ecc.) stanno abbandonando la precedente codifica, detta “analogica”, per adottare quella digitale. I vantaggi sono palesi. Come segnala E. SARLI nella voce «Informazione» del Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, [accesso: 8 marzo 2014], www.disf.org/Voci/74.asp, nella codifica digitale «l’informazione è, in certo senso indistruttibile», non «soggetta a deterioramento» come quella analogica, «immune da disturbi». Essa «introduce, in qualche modo, una perfezione nel mondo della tecnica».
[2] L’espressione è tratta da T. NELSON, «Comp Lib/Dream Machine», in N. WARDRIP FRUIN- N. MONTFORT (edd.), The New Media Reader, The MIT Press, Cambridge (MA), 2003, 304: «Perché dovrebbero interessarci i computer? Perché viviamo dentro essi come i pesci nell’acqua».
[3] Cf G.O. LONGO, Homo technologicus, Ledizioni, Milano 2012.
[4] S. HELMREICH, «The Word for World Is Computer. Simulating second natures in artificial life», in M. NORTON WISE (ed.), Growing explanations. Historical perspectives on recent science, Duke University Press, Durham and London 2004, 284.
[5] K. ZUSE, Rechnender Raum, Fr. Vieweg & Sohn, Braunschweig 1969. La versione inglese del testo è a disposizione all’indirizzo ftp://ftp.idsia.ch/pub/juergen/zuserechnenderraum.pdf
[6] Tra i più noti: G. CHAITIN, Algorithmic Information Theory, Cambridge University Press, Cambridge (MA), 1987; tr. it., Teoria algoritmica della complessità, Giappichelli, Torino 2006; ID., Exploring Randomness, Springer Verlag, Berlin 2001; ID., Meta Math! The Quest for Omega, Pantheon, New York 2005; tr. it., Alla ricerca di omega, Adelphi, Milano 2007.
[7] ID., «Metabiology: Life as Evolving Software», [accesso: 8 marzo 2014], https://www.cs.auckland.ac.nz/~chaitin/metabiology.pdf.
[8] J. WHEELER, «Information, Physics, Quantum: The Search for Links», in W. ZUREK (ed.), Complexity, Entropy, and the Physics of Information, Addison-Wesley, Redwood City (CA) 1990, 5. Le traduzioni dei testi non editi in italiano sono dell’autore. Il termine “bit” fu coniato nel 1946 dal matematico John Tukey, come abbreviazione di “binary digit”, ovvero “numero binario”. Come riferisce Anton Glaser nel suo History of binary and other nondecimal numeration (Tomash, Pennsylvania, 1971), il codice binario, cioè quello che fa uso di soli due numeri (0 e 1), era già stato studiato ai tempi di Leibniz come base di una nuova matematica. Dalla teoria si passa alla prassi con la programmazione dei computer che utilizza proprio questo linguaggio. Nel codice di programmazione ASCII, ad esempio, la lettera “A” è rappresentata dalla sequenza di otto bit “01000001”. I fisici e i filosofi digitali ipotizzano che il libro della Natura sia scritto non in caratteri numerici decimali, ma in caratteri numerici binari.
[9] K. KELLY, «God Is the Machine: A Mind-bending Meditation on the Transcendent Power of Digital Computation», Wired (2002) [accesso: 03 marzo 2014], www.wired.com/wiredarchive/10.12/holytech.html.
[10] W. DUNCAN, «The Quantum Universe: An Information Systems Perspective», [accesso: 08 marzo 2014], http://bill-duncan.net/pdf/The_Quantum_Universe.pdf
[11] C. EMMECHE, The Garden in the Machine. The Emerging Science of Artificial Life, Princeton University Press, Princeton 1994; tr. it., Il giardino nella macchina. La nuova scienza della vita artificiale, Bollati Boringhieri, Torino 1996, 26
[12] C. GERSHENSON, «The World of Evolving Information», [accesso: 8 marzo 2014], http://uk.arxiv.org/abs/0704.0304.
[13] Ib.
[14] Ib.
[15] La cosiddetta tesi di Church-Turing in versione forte afferma, in breve, che ogni sistema fisico grande e complesso quanto si vuole, purché finito, può essere perfettamente simulato da una macchina di computazione a modello universale che opera con mezzi e in un tempo finiti.
[16] R. WRIGHT, Three Scientists and Their Gods, Times Books, New York 1988. La parte dedicata a Fredkin è stata poi ripubblicata. Cf ID., «Did the Universe Just Happen?», in The Atlantic Monthly 261 (1988), [accesso: 8 marzo 2014], www.theatlantic.com/past/docs/issues/88apr/wright.htm.
[17] Ib.
[18] Ib.
[19] Ib.
[20] Cf A. VACCARO, «Dio e il bit dell’Universo», in Avvenire, 16 dicembre 2010, 33.
[21] S. LEM, Summa technologiae, Lubelskie, Krakow, 1964.
[22] T. SEJNOWSKY – P. CHURCHLAND, The Computational Brain, MIT Press, Cambridge (MA) 1992; tr. it., Il cervello computazionale, Il Mulino, Bologna 1995.
[23] S. WOLFRAM, A New Kind of Science, Wolfram Media Inc., 2002.
[24] Per gli automi cellulari e per i capisaldi della filosofia digitale cf G.O. LONGO – A. VACCARO, Bit Bang. La nascita della filosofia digitale, Apogeo, Rimini 2013.
[25] J. SCHMIDHUBER, A Computer Scientist’s View of Life, the Universe, and Everything, in C. FREKSA (ed.), Lectures Notes in Computer Science, Springer, Berlin,1997, n. 1337, pp. 201-208.
[26] Cf «Rebooting Civilization II», [accesso: 8 marzo 2014], www.edge.org/documents/day2/day2.html.
[27] G. CHAITIN, «Leibniz, Information, Math and Physics», [accesso: 3 marzo 2014], www.cs.suckland.ac.nz/~chaitin/kirchberg.html.
[28] V. VEDRAL, Decoding Reality. The Universe as Quantum Information, Oxford University Press, Oxford 2010
[29] Cf D. DEUTSCH, «It’s Much Bigger Thing Than It Looks», [accesso: 10 marzo 2014], www.edge.org/conversation/iits-a-much-bigger-thing-than-it-looks
[30] S. LLOYD, Programming the Universe, A. Knopf, New York, 2006; tr. it., Il programma dell’universo, Einaudi, Torino, 2006
[31] Cf ID., «Ultimate Physical Limits to Computation», in Nature 406 (2000) 1047-1054; ID., «Computational Capacity of the Universe»,in Physical Review Letter 23 (2002) 7901-7904.
[32] ID., Programming the Universe, cit., 149.
[33] Ib.
[34] Ib.
[35] Cf A. VACCARO, «“Cyber” cristiani?», in Avvenire, 19 giugno 2013, 23.
[36] G. CHAITIN, «Leibniz, Information, Math and Physics», cit.
[37] D. HILLIS, The Pattern on the Stone, Basic Books, New York 1999, 16.
[38] R. WRIGHT, Three Scientists and Their Gods, cit., 56.
[39] S. HELMREICH, The Word for World Is Computer, cit., 288.
[40] M. MALONE, «God, Wolfram and Everything Else», in Forbes, 27.11.2000, [accesso: 3 marzo 2014], www.forbes.com/asap/2000/1127/162.html.
[41] Con il concetto di «informazione digitale» si è infranto il classico dualismo ontologico spirito-materia e si è introdotta una terza dimensione dell’esistente. Essa non è materiale (si pensi alla componente software che si contrappone alla componente hardware), ma non è neppure spirituale al pari della natura che il cristianesimo, ad esempio, attribuisce alla divinità, alle schiere angeliche o all’anima umana. Dello statuto ontologico dei programmi informatici tratta E. OLSON, «The Ontological Basis of Strong AI», in AI 3 (1997) 29-39.
[42] G. CHAITIN, «Metabiology», cit.
[43] R. WRIGHT, Three Scientists and Their Gods, cit
[44] Ib., 64.
[45] Cf GIOVANNI PAOLO II, «Lettera apostolica Tertio Millennio adveniente», 10 novembre 1994, EV 14/1776.
[46] K. KELLY, «God Is the Machine», cit.
[47] Nello Jargon File, ovvero nel gergo che gli appassionati di informatica hanno collettivamente compilato in Rete (è tradotto in italiano in http://jhanc.altervista.org/jargon/Intro.html), il termine hacker designa
«colui che programma con passione». Agli hackers si deve la nascita del personal computer, di Internet, del World Wide Web. Al contrario, il termine cracker indica il «criminale informatico» che, per denaro, irrompe nei computer altrui per rubare dati o lanciare virus.
[48] Se numerosi, come visto, sono gli studi sul rapporto tra informazione e fisica, ormai innumerevoli sono quelli che si occupano del rapporto tra informazione e genetica (è ormai nel linguaggio comune la metafora del Dna come codice d’informazione) o tra informazione e neuroscienze, a partire dalle dimostrazioni di Warren Mc Culloch e Walter Pitts (primi anni Quaranta del Novecento) sul funzionamento dei neuroni come «dispositivi logici» on/off o 0/1. Questi temi sono già entrati anche nella considerazione teologica. Tra i molti studi e interventi, cf C. WASSERMANN – R. KIRBY – B. RORDORF (edd.), Theology of Information. Proceedings of the Third European Conference on Science and Theology, Labor et Fides, Geneve 1992; E. CATTANEO, «Computer, evoluzione e teologia», in Rassegna di Teologia 49 (2008) 641-665; G. TANZELLA- NITTI, «Dio e le leggi naturali. Perché gli scienziati ne parlano ancora», [accesso: 3 marzo 2014], www.disf.org/Editoriali/Editoriale0807.asp.
[49] Cf J. LANIER, «One-half of a Manifesto», in Edge (2000) [accesso: 11 marzo 2014], www.wired.com/wired/archive/8.12/lanier.html.
[50] Cf anche l’ultimo lavoro di G. FROSINI, Dio il cosmo l’uomo. Exitus-reditus, EDB, Bologna 2012, 18-19.
[51] Cf P. HIMANEN, The Hacker Ethic and the Spirit of the Information Age, Random House, London 2001; tr. it., L’etica hacker e lo spirito dell’età dell’informazione, Feltrinelli, Milano 2001.
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