Pubblichiamo la prima parte dell’articolo. La seconda parte è stata pubblicata il 3 gennaio 2025.
Robot integrati con l‘Intelligenza Artificiale (robot-IA) dedicati alla fede sono utilizzato in aiuto ai fedeli per la preghiera, la liturgia o semplicemente come aiuto nei servizi di accoglienza e studi. Pensiamo a SanTO (dove TO significa Operatore Teomorfico) capace di rispondere alle domande sulla fede, citare la Bibbia e pregare insieme al suo utente. Oppure a Pepper e Mindar, due robot umanoidi in grado di tenere prediche e muoversi per interfacciarsi con le persone. In India un robot è in grado di eseguire due volte al giorno il rituale induista dedicato al Gange e nel 2017, per il 500° anniversario della Riforma, la Chiesa protestante tedesca ha utilizzato un robot, BlessU-2 per impartire benedizioni pre-programmate che sono state ricevute da oltre 10.000 persone. Poco tempo fa, a Lucerna è stato installato un ologramma di Gesù con cui i fedeli possono interagire.
Nonostante la buona accoglienza, si sono levate alte grida di protesta. Se da un lato si comprende la resistenza alle novità presenti sia dentro che fuori la Chiesa, dall’altra è proprio questa assoluta novità che interroga: sono leciti solo i metodi tradizionali oppure li riteniamo tali perché «si è sempre fatto così»? Perché pregare davanti ad un’icona è meglio che davanti ad uno schermo e perché pregare davanti a una statua è meglio che farlo davanti ad un robot? Ignorando l’abitudine o un’idea di bello legato ai canoni tradizionali, valori importanti ma soggettivi, rimane l’oggettività della mediazione operata da un artefatto umano. Qual è la peculiarità presente in un’icona o in una statua, ma assente nello schermo digitale o in un robot? Di contro, schermo digitale e robot offrono le stesse peculiarità delle icone e delle statue?
Mi propongo un confronto tra le due modalità di mediazione, fisica e digitale, alla ricerca delle caratteristiche, se esistono, che rendono adatte icone e robot-IA per la preghiera come SanTo. Inizierò definendo lo sviluppo della teologia dell’icona, verificare se i robot-IA vi possono afferire, in seguito analizzerò i risultati e proporrò alcuni possibili utilizzi.
Teologia dell’icona
Il disegno è lo strumento più immediato per esprimere e narrare il proprio mondo interiore o della comunità in cui si è inseriti. Nel disegno il sentimento religioso trova la possibilità di esprimere l’inesprimibile alimentando la venerazione degli dèi o dei santi, sentimenti che si scontreranno nella crisi iconoclasta.
Immagini e idoli nell’AT
L’Antico Testamento riporta il fondamento del divieto di immagini e tra i passi più importanti che definiscono la proibizione o la sottintendono troviamo:
Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai[1].
State bene in guardia per la vostra vita: poiché non vedeste alcuna figura, quando il Signore vi parlò sull’Oreb dal fuoco, non vi corrompete, dunque, e non fatevi l’immagine scolpita di qualche idolo, la figura di maschio o di femmina, la figura di qualunque animale che è sopra la terra, la figura di un uccello che vola nei cieli, la figura di una bestia che striscia sul suolo, la figura di un pesce che vive nelle acque sotto la terra. Quando alzi gli occhi al cielo e vedi il sole, la luna, le stelle e tutto l’esercito del cielo, tu non lasciarti indurre a prostrarti davanti a quelle cose e a servirle; cose che il Signore, tuo Dio, ha dato in sorte a tutti i popoli che sono sotto tutti i cieli[2].
Ascoltate la parola che il Signore vi rivolge, casa di Israele. Così dice il Signore: “Non imparate la condotta delle nazioni e non abbiate paura dei segni del cielo, poiché di essi hanno paura le nazioni. Perché ciò che provoca la paura dei popoli è un nulla, non è che un legno tagliato nel bosco, opera delle mani di un intagliatore. Li abbelliscono di argento e di oro, li fissano con chiodi e con martelli, perché non traballino. Gli idoli sono come uno spauracchio in un campo di cetrioli: non sanno parlare; bisogna portarli, perché non possono camminare. Non temeteli: non fanno alcun male, come non possono neppure fare del bene”[3].
Possiamo notare, però, una certa contraddizione perché Dio stesso comanda la costruzione di immagini e statue per il Santuario. Così l’Arca dell’Alleanza è coperta da un propiziatorio di oro forgiato con due cherubini alle estremità (Es 24,17-22), il velo del Tempio è ricamato con cherubini “lavoro d’artista” (Es 26,31); la descrizione del Sancta Sanctorum (1Re 6,23-24) ricorda i due grandi cherubini e le statue intorno alle pareti.
Anche vedere Dio è piuttosto problematico. Benché Dio dichiarasse a Mosè:
Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo piò vedermi e restare vivo[4]
subito dopo si attesta che:
il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come uno parla con un amico[5]
i loro occhi videro la grandezza della sua gloria[6]
L’equivoco si scioglie ammettendo una differenza fra l’adorazione dell’immagine e la sua venerazione. Se farsi un’immagine di Dio è una proibizione diretta del Signore, il roveto ardente interroga con forza il divieto: è possibile riprodurre il roveto come rappresentazione di Dio? L’esperienza di Israele a contatto con popoli pagani così pieni di idoli e immagini, ha avuto un ruolo importante nel definire il divieto. Come ricorda la figura del vasaio[7] l’idolo è muto e cieco, è inerme, è lo sguardo dell’uomo che lo rende un idolo e vede il divino che non c’è. Come potrebbe l’uomo creare con le sue mani un’immagine del suo Creatore? Il divieto nasce per evitare la corruzione dello sguardo incapace di distinguere il prototipo (prototypos, modello originario, primo esemplare) dalla sua rappresentazione.
La Chiesa nascente e le immagini
La Chiesa nascente eredita dalla sinagoga la riflessione delle immagini e la loro proibizione. La denuncia di San Paolo non ha bisogno di commenti:
hanno scambiato la gloria del Dio incorruttibile con un’immagine e una figura di uomo corruttibile , di uccelli, di quadrupedi e di rettili […] hanno scambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno adorato e servito la creatura anziché il Creatore[8]
mentre in Giovanni troviamo l’invito a un culto totalmente spirituale in opposizione alla prassi pagana:
ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità[9]
La Chiesa apostolica, dunque, rifiuta le immagini accettando, forse, i segni cristiani che, più tardi, la Chiesa dei Padri adotterà, come la croce. La Tradizione Apostolica, comunemente datata nella metà del II secolo, avverte che
Se uno è scultore o pittore, gli si dica di non rappresentare idoli, smetta o sia rimandato […] chi è sacerdote o guardiano di idoli, smetta o sia rimandato[10]
Anche Giustino, nella Prima Apologia, si scaglia contro le icone e le statue considerando l’iconoclastia una tradizione consolidata della Chiesa.
Ma né con frequenti sacrifici né con corone di fiori noi onoriamo quelli che gli uomini, dopo averli effigiati e posti nei templi, chiamarono dèi, poiché sappiamo che sono oggetti inanimati e morti e privi della forma di Dio (infatti pensiamo che Dio non abbia una forma tale quale alcuni dicono di aver imitato per onorarli), ma hanno il nome e la forma di quei malvagi demoni che sono apparsi.
Ma che bisogno c’è di dire a voi, che ben lo sapete, in quale modo gli artisti trattano la materia, scolpendo e tagliando e fondendo e battendo? Spesso, perfino ad oggetti vili, dopo aver cambiato solo la forma e aver loro dato una figura, pongono il nome di dèi. Il che non solo noi riteniamo irragionevole, ma anche offensivo di Dio, il quale, dotato di gloria ed aspetto ineffabili, in questo modo darebbe nome ad oggetti corruttibili e bisognosi di cura. E che gli artefici di tali oggetti siano dissoluti e che possiedano i vizi tutti quanti (per non annoverarli ad uno ad uno), voi lo sapete bene; corrompono anche le giovani schiave che lavorano con loro. Quale demenza scegliere uomini dissoluti per plasmare e creare dèi da offrire alla venerazione, e porre simili guardie a custodia dei templi dove essi sono collocati, non vedendo che è scelleratezza pensare e dire che degli uomini siano custodi di dèi! Noi invece abbiamo appreso che Dio non ha bisogno di offerte materiali da parte di uomini, dal momento che vediamo che è Lui stesso a somministrare ogni cosa; abbiamo imparato, e ne siamo convinti e crediamo, che Egli accoglie solo coloro che imitano il bene che è in Lui, cioè sapienza e giustizia e benignità, e tutto ciò che è proprio di Dio, il quale non può prendere alcun nome che Gli si imponga[11].
Sotto l’influenza del pensiero di Origene, si nega la possibilità di rappresentare il Figlio anche dopo la sua incarnazione. Durante la sua vita terrena, scriverà Eusebio di Cesarea a Costanza, sorella di Costantino, Gesù era pienamente Dio, come la trasfigurazione sul Tabor attesta, perciò quale forma umana potrebbe rappresentarlo?
Ma se dici di ricercare da me non un’immagine della forma trasfigurata in Dio, ma una immagine della sua carne mortale, quale fu prima della trasfigurazione, (allora ti chiedo): ti sfugge del tutto il precetto in cui Dio vieta di fare immagini delle cose che sono sia in cielo che in terra (Es 20,4; Dt 5,8)?[12]
Rappresentare la sua forma umana avrebbe permesso di pensare Gesù indipendentemente dalla sua forma divina e di attribuire alla materia un riconoscimento divino, delegare cioè ad un oggetto finito la raffigurazione dell’infinito. Dietro questa tesi si nasconde un disprezzo o almeno una opposizione al materialismo che porta a negare l’importanza della carne e del corpo.
Lo sviluppo di una nuova teologia
Fin da quando il cristianesimo assunse un ruolo pubblico, la contaminazione con l’arte imperiale favorì il lento ma progressivo indebolimento del divieto delle immagini. Iniziò una fase di ripensamenti del divieto. I primi apprezzamenti delle immagini vennero principalmente da due correnti di pensiero: la prime vide nell’immagine un supporto pedagogico, la Biblia pauperum, la seconda, più articolata, darà vita alla teologia bizantina delle icone. Alla Biblia pauperum anche oggi è riconosciuto un valore narrativo, un valido strumento pedagogico. Questa caratteristica ha impedito che venisse considerata un oggetto di culto e non è stata oggetto di adorazione o venerazione perché era il racconto, l’evento che la pittura rappresenta a insegnare cosa o chi adorare. Le immagini nelle chiese non aspiravano a una dimensione sacrale se non nella storia che raccontavano. Quando le immagini rappresenteranno figure di santi fuori dal contesto narrativo, questo tipo di giustificazione risulterà insufficiente costringendo a ripensarne lo statuto.
Nasce in questo modo l’attenzione per le immagini sacre non più come ausilio visivo per la predicazione, ma come mediatrici della presenza di Dio stesso, perciò degne di venerazione. Dalla funzione di supporto della predicazione, le immagini sacre svilupperanno il ruolo di ricordo e riproposizione del santo e delle sue azioni perpetuandone la presenza (specialmente se unita con una reliquia) e quindi della sua capacità di operare. Ecco che l’immagine fa presente il santo, si può toccare, baciare, impetrare… Ad alcune si iniziano ad attribuire poteri miracolosi e l’immagine inizia ad essere presenza. L’icona, da portatrice di messaggi, diventa essa stessa un messaggio.
Nello sviluppo teologico prende consistenza l’idea che Dio, comunicando nell’AT attraverso la parola, con l’assunzione della carne della creatura assume una dimensione visibile della propria presenza dimostrando che non è totalmente altro dal nostro mondo e che una congiunzione è possibile. L’immagine sembra avere una prevalenza sulla parola. L’incarnazione è il fondamento storico della possibilità dell’immagine pur aprendo una serie di problemi dogmatici che non sono oggetto di questo testo.
Teologia delle immagini
Inizia lo sviluppo di una teologia delle immagini secondo una gerarchia: dalla lettura sapienziale, in cui Dio viene rappresentato nell’atto creativo mentre consulta la Sapienza, prende forma una visione di gradi intermedi tra Dio e le creature che ereditano e trasmettono il riflesso divino l’uno all’altro. Perciò, l’immagine, uno dei gradi intermedi, contiene qualcosa dell’energia divina e non è più scandaloso usarla per rappresentare l’invisibile che comunque contiene. La materia sembra possedere la stessa forza mediatrice posseduta nell’incarnazione: come la carne era abitata dallo Spirito, così la materia dell’icona. Giovanni Damasceno evita di parlare di sostanza e preferisce energia e grazia. Se colui che viene rappresentato è stato riempito di grazia, l’icona partecipa di questa grazia. Nelle sue estreme conseguenze, l’immagine naturale e immagine artificiale sono consustanziali al prototipo, tesi che presta il fianco alla critica iconoclasta: come può un’immagine su materia morta essere consustanziale con il modello divino vivente?
Fine della crisi iconoclasta
La crisi iconoclasta ruoterà intorno alla differenza fra segno e simbolo. La croce è un segno privo di somiglianza con la forma visibile di Cristo e contiene un rimando a colui che vi è stato crocifisso; l’icona è un simbolo, figura dell’immanenza del divino in virtù della differenza fra prototipo e raffigurazione.
Il Concilio di Nicea II supererà le difficoltà rispondendo che non viene rappresentata la natura, ma l’ipostasi, la persona concreta sulla base della verità storica dell’incarnazione rappresentata nella forma in cui gli uomini lo videro. L’icona, perciò, è oggetto di venerazione e non di adorazione.
Le discussioni seguenti si concentreranno su temi cristologici estranei ai nostri scopi. Possiamo concludere qui questo veloce excursus storico. Ricordiamo come la fisicità della rappresentazione aiuta la preghiera sostenendo la dimensione contemplativa del mistero. Più l’icona si avvicina, con immagini, colori ed espressioni al contenuto rappresentato, più ne traiamo giovamento.
[1] Es 20,4-5; Dt 5,8-9.
[2] Dt 4,15-19.
[3] Ger 10,1-5.
[4] Es 33,20.
[5] Es 33,11.
[6] Sir 17,13 – il riferimento è alla teofania sul Sinai.
[7] Vedi Sap 8,15-18.
[8] Rm 1,23.25.
[9] Gv 4,23.
[10] Ippolito di Roma, Tradizione Apostolica, Edizione Paoline, 1995, XVI, 3.8
[11] Giustino, Le due apologie, Edizioni Paoline, 1983, IX-X,1
[12] Citato da D. Menozzi, La Chiesa e le immagini. I testi fondamentali nelle arti figurative dalle origini ai nostri giorni, San Paolo, 1995,p. 76
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