Un recente studio del MIT sulle conseguenze dell’uso dell’IA ha avuto un’ampia e duratura eco sui media. Stiamo parlando di Your Brain on ChatGPT, corposa ricerca di 206 pagine guidata da Natalya Kosmyna, pubblicata in pre-print il 10 giugno scorso.
Lo studio del MIT
Un campione di 54 studenti è stato diviso in tre gruppi, con il compito di scrivere un saggio. Il primo gruppo poteva usare ChatGPT, il secondo i motori di ricerca, mentre al terzo era stato vietato qualsiasi supporto digitale. Al termine dei lavori, è stato formato un quarto gruppo con i partecipanti del primo e del terzo gruppo, ma a parti invertite: chi aveva usato ChatGPT ora non poteva più accedervi e viceversa. I partecipanti sono stati monitorati tramite dDTF EEG, un particolare elettroencefalogramma che misura in tempo reale l’interazione tra le aree cerebrali.
I risultati sono sorprendenti. Il gruppo con accesso ai motori di ricerca ha registrato una connessione cerebrale inferiore del 34%-48% rispetto al gruppo senza aiuti, mentre il gruppo con accesso a ChatGPT ha registrato una differenza negativa del 55%. Inoltre, quest’ultimo gruppo ha avuto notevoli difficoltà a citare i propri testi nell’83% dei casi. I risultati del quarto gruppo hanno evidenziato difficoltà da parte di quanti avevano usato ChatGPT (non ricordavano ciò che avevano scritto), al contrario di chi non aveva usato nulla e ora poteva accedere ai dispositivi digitali.
Le conclusioni parlano di un “debito cognitivo” e del pericolo di assimilare concetti e idee senza comprenderli pienamente, con il rischio di diventare oggetto di manipolazione e propaganda. Inoltre, vi è un forte richiamo a ripensare alle pratiche educative e all’adozione dell’IA nelle scuole.
Quali lezioni possiamo apprendere?
Cosa ci insegna
La prima e più importante è che questo studio rappresenta un istante del nostro rapporto con l’IA e non l’intera storia. I risultati non possono assurgere a giudizio definitivo e devono rimanere confinati entro i limiti temporali di un atto all’interno di un processo molto più grande e complesso.
La seconda è la smentita delle affermazioni di molti giornali che hanno titolato: «ChatGPT atrofizza il cervello». Lo studio non afferma questo e non è contro l’IA in sé, ma contro il suo uso passivo e non intenzionale. Questo approccio riduce l’attivazione cognitiva e determina sia il debito cognitivo teorizzato nello studio, sia la latenza cognitiva – il periodo di tempo tra uno stimolo esterno (informazione, stimolo, evento…) e la risposta cognitiva o comportamentale di un individuo. L’impatto delle tecnologie sui correlati neurali (l’attività cerebrale che corrisponde a specifici stati mentali, emozioni, percezioni…) è un campo studiato e conosciuto fin dall’avvento della televisione, tanto da poter affermare che lo studio non rivela nulla di nuovo: l’approccio acritico disattiva il funzionamento di parte del cervello.
Una critica metodologica, se possibile, può essere rivolta all’assenza di un test della personalità di base per identificare le differenze nell’approccio critico dei partecipanti e verificare se e come l’uso dell’IA modifichi l’attività critica/acritica.
In ogni caso, si evince l’inclinazione alla delega delle attività tipicamente umane. Anche questo fenomeno è già noto, ad esempio nel caso della memoria. Non ricordiamo più i numeri telefonici perché usiamo le rubriche digitali, veri e propri archivi esterni. Questo non ha comportato l’atrofizzazione della memoria biologica, ma il ricorso a una risorsa cognitiva digitale ha liberato risorse biologiche per altri scopi e obiettivi. Il problema nasce quando alla delega non segue una nuova attività, creando un vuoto, ovvero degrado cognitivo e disabitudine al pensiero.
La delega del pensiero
Una terza lezione scaturisce dalla domanda: perché l’IA seduce così tanto da ottenere una delega così ampia? Ci sono motivazioni psicologiche profonde. L’IA non critica; anzi, cerca di stabilire un rapporto empatico con l’utente condividendone (o simulando di condividerne) i sentimenti; non giudica; a qualsiasi domanda posta non manifesta alcun disagio e risponde in modo pertinente ed esaustivo; ci fa apparire migliori suggerendo sempre una scelta ottimale e socialmente accettata. Qualcuno può vantare un’amicizia simile?
Il problema nasce quando il debito cognitivo – l’impoverimento mentale causato dalla disabitudine al pensiero creativo – chiede di essere saldato, ad esempio quando dobbiamo dire qualcosa di nostro, da un brindisi a un discorso. In questi casi si scopre la fatica del pensiero, la povertà dei propri pensieri e lo smarrimento davanti al vuoto delle idee. Pensare significa studiare un problema, documentarsi, informarsi, riflettere e confrontarsi prima di elaborare una propria teoria. Vuol dire essere inseriti in una rete di conoscenze capaci di recepire ed esprimere critiche di senso. ChatGPT esenta da questi investimenti di tempo e di affettività per dare ugualmente risposte accettabili.
Il vero pericolo
Il vero pericolo è ora più visibile: non è l’IA, bensì l’adattamento umano, l’accettazione acritica delle posizioni fornite dall’IA. La tentazione della tranquillità garantita dall’IA intorpidisce il muscolo del pensiero, così come nello spazio lo scheletro si indebolisce non dovendo più contrastare la gravità. Al rientro sulla Terra gli astronauti non sono in grado di stare in piedi; allo stesso modo, chi è abituato a usare ChatGPT ha difficoltà a riprendere a pensare criticamente.
Concludendo, lo studio del MIT ci mostra la via del corretto uso dell’IA: laddove esiste un pensiero critico, ChatGPT si dimostra un valido strumento di supporto cognitivo. Per questo motivo l’invenzione della scrittura non ha indebolito il nostro pensiero né la rubrica digitale ha indebolito la memoria. Seguire le indicazioni del GPS non insegna il percorso, ma se si ha già la mappa mentale dei luoghi, ecco che il GPS può indicarci nuovi itinerari.
Il pensiero come seme del Teleios
Andrea Vaccaro si domanda se
la tecnologia non possa essere vista come un anticipo del Regno. I “Semi del Logos” sono chiamati, a partire da san Giustino martire, gli sprazzi di verità frammisti a errori della filosofia greca. Non sarebbe allora opportuno denominare “semi del Téleios” (“della Perfezione”) le attuali, benefiche e mirabili conquiste commiste a deviazioni della tecnologia contemporanea?
I “semi del Téleios” ci permettono di avviare un discorso teologico riguardo a ChatGPT e al suo uso. San Tommaso d’Aquino afferma che la grazia presuppone la natura e la perfeziona, intendendo che la condizione umana, con le sue capacità razionali e morali, è il fondamento su cui si innesta la grazia, non come qualcosa di estraneo o opposto alla natura, ma piuttosto un dono soprannaturale che eleva e completa le potenzialità naturali dell’uomo. In modo analogo, ChatGPT e l’IA presuppongono uno spirito critico, l’abitudine al pensare. Quando questa è presente – e lo studio del MIT lo dimostra – l’uso delle tecnologie aiuta l’espansione del pensiero anziché annichilirlo. Sotto questa luce, ChatGPT e l’IA ci appaiono come “semi del Téleios”, in grado di sostenerci in un percorso di formazione e perfezione. Per questo motivo potremmo parafrasare Tommaso: ChatGPT presuppone il pensiero (umano) e lo perfeziona.
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