Pubblichiamo l’articolo comparso su L’Osservatore Romano il 3 febbraio 2024, dove sono riportati stralci dell’intervento di Massimo Naro al Seminario di studi “Realtà virtuale e corpi di carne” (Roma il 2-3 febbraio) organizzato da SEFIR. Massimo Naro, docente della Facoltà Teologica di Sicilia e Direttore del Centro Cammarata è stato recentemente nominato membro della Pontificia Accademia di Teologia.
Del testo qui riportato, ricco di aperture e collegamenti, ci piace evidenziare l’adattamento fatta dall’autore dell’immagine di McLuhan in una lettera a Maritain nel 1969: l’upload della mente in un dispositivo informatico o direttamente in internet sarebbe una sorta di immortalità digitale, “un facsimile razionalistico del Corpo mistico”.
L’immortalità digitale come un’imitazione o un’anticipazione ragionevole dell’escatologico “essere tutti uno”. Per McLuhan questo non è un segno molto positivo. Per la teologia della tecnologia prospettata in Trascendente Digitale, tuttavia, si rivela una buona pista di riflessione. V’è una bella differenza tra questo tipo di immortalità digitale e quella promessa dal Vangelo nel mondo a venire, ma si tratta pur sempre di un avvicinamento, lungo una linea obliqua, verso quella realtà, anche solo a livello di immaginazione o come condizione di pensabilità. Come un seme di Logos che è un barlume e uno spiraglio verso la Verità. Come un seme di Teleios che è una preparazione e un tentativo di affrettare (2Pt 3,12) il Regno, dove anche l’essere umano contribuisce, per grazia e per quanto nelle sue possibilità, all’evento.
Dalla risurrezione alla reincarnazione digitale
L’immortalità dell’anima ai tempi dell’intelligenza artificiale
Pubblichiamo stralci di una delle relazioni, dedicata al tema della risurrezione della carne nell’età dell’intelligenza artificiale (IA), tenute in occasione del seminario di studi dell’associazione Nuovo Sefir svoltosi a Roma il 2 e 3 febbraio sul tema «Realtà virtuale e corpi di carne».
di MASSIMO NARO
Come Eugen Biser fece notare in una densa pagina della sua Introduzione al cristianesimo, la teologia cristiana — fin dai suoi inizi — ha messo a disposizione dell’annuncio evangelico il suo lessico sperimentale, affollato di inedite parole inventate (o prese in prestito dal vocabolario greco dei filosofi e dei tragediografi, ma pure dai rotoli di Israele, e in ogni caso via via risemantizzate) per render conto dell’inaudito racconto dei pescatori di Galilea. Il cui cespite sorgivo è la risurrezione del loro Maestro, evento, appunto, inaudito in quanto del tutto inedito nell’esperienza comune. Più precisamente, risurrezione è la princip(i)ale parola coraggiosamente detta e ridetta, pazientemente udita e riudita dalla teologia cristiana, che per comprenderne e spiegarne il senso nacque e continua a svolgere il suo compito.
I padri della Chiesa s’incaricarono di discernere senza distanziare il senso della risurrezione della carne da quello dell’immortalità dell’anima. Una questione complessa che si complica nell’attuale congiuntura storico-culturale, in cui la modernità giunge al capolinea. A quel che viene dopo di essa si dà ormai il nome di Antropocene, termine di conio geologico per dire che viviamo nell’epoca in cui l’essere umano condiziona, con i suoi comportamenti quotidiani non meno che con le sue strategie politiche ed economiche, l’assetto ecologico mondiale, concorrendo come non mai a causarne i cambiamenti, talvolta catastrofici. Benché questo sia un trend che perdura solo da circa due secoli, qualcuno considera l’Antropocene come una sorta di età di mezzo o di transizione verso un’ulteriore nuova epoca, il Novacene di cui ha scritto recentemente James Lovelock: l’«età dell’iperintelligenza». L’iperintelligenza in questione non sarà propriamente umana, anche se di derivazione umana. Sarà piuttosto l’Intelligenza Artificiale (così la chiamò già nel 1955 John McCarthy), molto più capace di processare informaticamente, di connettere cioè tra di esse le informazioni di ogni tipo che gli esseri umani le fanno registrare. E, di conseguenza, molto più “consapevole” (le virgolette sono obbligatorie, ha ben spiegato Federico Faggin) degli esseri umani del fatto che non si può sopravvivere se si stravolgono a oltranza gli equilibri ecologici del pianeta Terra.
Il termine sopravvivenza non è sinonimo di immortalità né di risurrezione. Immortalità vuol dire essere immuni dalla morte. Sopravvivere significa far di tutto per non morire e di fatto riuscire a non morire. L’immortalità non teme la morte e l’attraversa come se non avesse alcuna consistenza reale, considera la morte un’apparenza o un passaggio da un modo all’altro di esistere: la sua principale virtù è l’atarassia, l’imperturbabilità epicurea. La sopravvivenza, al contrario, teme la morte come una fine irreparabile e la previene, mettendosene in qualche modo al riparo: la sua prima virtù è la resilienza, l’attitudine cioè ad abbarbicarsi alla vita. La risurrezione, a sua volta, affronta la morte senza riuscire a evitarla o a scavalcarla, ben consapevole della sua drammatica consistenza, sapendo di doverla sconfiggere dal suo di dentro, dal di dentro della morte stessa voglio dire, poiché chi muore — così sprofondando nella morte — vi si va ad annidare come un seme foriero di vita nuova, «incorruttibile» avrebbe detto Paolo ai Corinzi: la sua virtù più eminente è la speranza.
Ai nostri ragazzi spiegherei ciò che voglio dire con la metafora degli horcrux, quei frammenti d’anima con cui il malefico Voldemort si era disseminato negli oggetti più insospettabili per così tornare a vivere dopo la sua morte, come Joanne Rowling scrive nella saga di Harry Potter.
Anche il maghetto di Hogwarts è un horcrux vivente di Voldemort e deve accettare di morire per poter neutralizzare quel seme di male che cova in sé e per tornare a vivere un’esistenza nuova. Non so se Rowling abbia immaginato che i figli di Adamo, perito a seguito della subdola tentazione del Maligno, siano degli horcrux inconsapevoli del male ma in un cer to senso si potrebbe dire che il Cristo risuscitato, molto più efficacemente di un Harry Potter redivivo, sia l’horcrux santo in cui la nostra umanità è messa al sicuro, destinata all’incorruttibilità.
Il lettore non alzi il sopracciglio se indugio a riflettere in questa prospettiva prescientifica. Del resto, come ha messo in luce Erik Davis in Techgnosis (1998), il progresso tecnoscientifico ha sempre dato adito a una corrispondente mitologia, espressa in fantascienza letteraria e cinematografica, e persino a delle vere e proprie credenze e pratiche religiose, in particolare al tecnognosticismo. Davis illustra criticamente le affermazioni dei guru dell’estropia. Questi, facendo da controcanto ai teorici dell’entropia, prospettano la sopravvivenza dell’essere umano grazie all’IA, progettata e realizzata come vero e proprio oltrepassamento della condizione corporea, di per sé inevitabilmente effimera, culminante nel travaso della mente di ciascun essere umano in un raffinatissimo dispositivo informatico, come nel 2014 riusciva a fare Johnny Depp nei panni dello scienziato protagonista del film Transcendence. L’immortalità dell’anima, in questo caso, si tradurrebbe nell’immortalità della mente (e delle informazioni conservate nella memoria) e l’IA ne diventerebbe la custodia, il tabernacolo più che il sepolcro, prolungando e anzi potenziando algoritmicamente le sinapsi cerebrali e così eludendo l’encefalogramma piatto. Questo trasferimento di informazioni resterebbe, in realtà, ben lungi dalla risurrezione intesa e sperata cristianamente. Sarebbe una sorta di reincarnazione dentro un ambiente informatico, una “metempsicosi digitale” che trasporrebbe conoscenze, convinzioni, intuizioni, ricordi, in una tanto illimitata quanto indefinita “topologia algoritmica”. In tale cyberspazio la mente si ritroverebbe ormai astratta dalla condizione fisica e dai condizionamenti corporei e ogni singolo individuo entrerebbe in un’effettiva connessione virtuale con tutti gli altri individui umani, quale piccola maglia di un’universale rete informatica che significativamente McLuhan — scrivendo a Maritain nel 1969 — definì «un facsimile razionalistico del corpo mistico».
Come ha rilevato Barbara De Carolis in un suo contributo offerto nel convegno nazionale sui Futures Studies tenutosi a Napoli nel settembre scorso, si tenta già di programmare delle app che conservino i ricordi dei defunti e li affidino alla rielaborazione dell’intelligenza artificiale affinché i loro familiari possano ripassarli in rassegna come consultando un archivio. Finché ci si limitasse a questo, l’operazione assomiglierebbe alla visita in una sorta di Wunderkammer digitale. Ma allorché l’IA rendesse possibile un’interazione tra la coscienza digitalmente mummificata del defunto e quella dei suoi visitatori ancora vivi, allora la coscienza del defunto potrebbe risvegliarsi e ricominciare con i suoi familiari o amici la relazione interrotta dalla morte: «Se si è fortunati — annotava De Carolis — quel che resta dei ricordi raccolti potrebbe divenire, nel tempo, quanto di più vicino possa esserci alla nostra idea di eternità». Come si può capire, il tecnognosticismo — che si alimenta di queste proiezioni e di questi auspici — consiste in un neodualismo tra mente e corpo, o tra mente e cervello. E guarda all’IA come all’approdo più avanzato dell’evoluzione umana, la quale così non sarebbe più un fenomeno naturale ma piuttosto culturale, mentre la stessa intelligenza artificiale farebbe le veci dell’eone “a venire” atteso nel simbolo niceno-costantinopolitano. Queste elucubrazioni hanno almeno un merito: evidenziano un nuovo aspetto della crisi odierna dell’umanesimo biblico-cristiano, che consiste nel cortocircuito tra creaturalità e creatività. Vuol dire che oggi non cogliamo il senso teologico dell’indole tecnologica dell’essere umano in quanto creato da Dio e come Dio creatore a sua volta, formidabile artefice ma pure mirabile artefatto (creatura fatta ad arte).
L’oblio della creaturalità e l’enfasi della creatività hanno a che fare con la deriva della tecnologia lungo il crinale della tecnocrazia. Questa potrebbe essere intesa come l’automazione tecnica che tracima in autonomia della tecnica. Per intellettuali come il filosofo Maurizio Ferraris e come lo scienziato Guido Saracco, coautori di un interessante libro, Tecnosofia, secondo cui quanto più la tecnologia e l’umanesimo sapranno interagire tanto più efficacemente si realizzerà un progresso sicuro per tutti, la soggettualizzazione della tecnica è solo uno spauracchio che occorre smaltire con lo studio e con il ragionamento. Giovanni Amendola ha fatto notare a tal proposito che non si tratta di temere un’improbabile macchina pensante ma che l’essere umano si concepisca come «nient’altro che una macchina calcolante», pago di costruire macchine calcolatrici sempre più performanti presumendo che esauriscano ogni possibile somiglianza con lui. Ma se è vero — come argomenta l’arguta «tecnodicea» di Ferraris e Saracco — che la tecnica non diventerà soggetto autonomo e rimarrà l’aggettivo qualificativo dell’automazione, è vero pure, come ha scritto Giorgio Agamben nel suo Nudità, che a smarrire il senso della propria soggettualità potrà essere l’uomo, ridotto dentro la morsa delle tecnologie biometriche da soggetto conoscente a oggetto riconosciuto, da volto personale a faccia identificata, da misura di tutte le cose (per dirla con Protagora) a cosa misurata.
Questa «identità impersonale», come l’ha chiamata Agamben, rischia di perdere la capacità relazionale e pertanto di diventare irrazionale, se è fondata l’intuizione di Virgilio Melchiorre secondo cui l’«irrazionale è irrelazione». Peggio ancora: corre il pericolo di restare irreale, assolutamente virtuale.
Lascia un commento