Geopolitica umana
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Il rapporto tra tecnologia e politica nella Geopolitica umana di Dario Fabbri

Pensare che le tecnologie saltino fuori dalla mente dei grandi geni tech è come credere che i conigli escano davvero dal cilindro del prestigiatore. Fabbri offre la sua interpretazione del vero rapporto tra politica e tecnologia. Nonché dell’essenza politica della tecnologia.

“La geopolitica umana studia l’interazione tra collettività collocate nello spazio geografico calandosi nello sguardo altrui. Oggetto della sua analisi sono le aggregazioni umane, in ogni realizzazione storica. Tribù, póleis, comuni. Fino all’epoca corrente, dominata dagli Stati-nazione, dagli imperi. Mai i singoli individui. Tantomeno i leader. Ritenuti irrilevanti, mero prodotto della realtà che pensano di determinare. Nella migliore accezione, soggetti che incarnano lo spirito del tempo”.

Geopolitica umana

Il nucleo del suo pensiero risiede nell’etnografia, nella traiettoria cioè che ogni popolo disegna per il proprio sviluppo. Ogni collettività di individui – spiega l’autore – si sviluppa nel tempo come una sorta di super-individuo: si dà un capo e una forma di governo adatti alle proprie caratteristiche; cresce considerando ciò che ha a disposizione (terra, mare, risorse, clima); affina una propria psicologia e visione del mondo; si crea un idioma che diviene la struttura portante su cui infine si cementa. Talvolta manifesta una volontà di potenza che crea un Impero. Nel mondo occidentale vi sono riusciti l’Impero Romano, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti d’America. Oggi si aggiungono Cina, Russia, Turchia e Iran. Altri Paesi ambiscono a diventarlo ma al momento non ne hanno le possibilità, per cui si limitano alle loro misurate sfere di influenza.

Il nucleo del suo pensiero risiede nell’etnografia, nella traiettoria cioè che ogni popolo disegna per il proprio sviluppo. Ogni collettività di individui – spiega l’autore – si sviluppa nel tempo come una sorta di super-individuo: si dà un capo e una forma di governo adatti alle proprie caratteristiche; cresce considerando ciò che ha a disposizione (terra, mare, risorse, clima); affina una propria psicologia e visione del mondo; si crea un idioma che diviene la struttura portante su cui infine si cementa. Talvolta manifesta una volontà di potenza che crea un Impero. Nel mondo occidentale vi sono riusciti l’Impero Romano, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti d’America. Oggi si aggiungono Cina, Russia, Turchia e Iran. Altri Paesi ambiscono a diventarlo ma al momento non ne hanno le possibilità, per cui si limitano alle loro misurate sfere di influenza.

È interessante notare come Fabbri ribalti il concetto dominante secondo cui l’economia è il motore della Storia: nella sua interpretazione il potere economico è sì uno strumento imprescindibile per imperare, ma non è il punto di arrivo che invece è, meno prosaicamente, la Gloria. Agli Imperi non interessa se una guerra è antieconomica, non interessano le sanzioni o il debito; agli Imperi interessa solo la propria volontà di potenza e il dominio culturale.

I tributari degli Imperi invece vedono i rapporti rovesciati: ambiscono alla protezione strategica, alla stabilità e al benessere economico e per questo accettano di buon grado l’abbraccio dell’Impero.

Gli Imperi sono “storici” nel senso che vogliono scrivere la storia, i sudditi (soprattutto gli Occidentali) sono “post-storici”: per loro la Storia è finita, il futuro è un placido regime di salute da migliorare, di diritti da affinare e di tempo libero da riempire. Talvolta i sudditi (come gli europei oggi) avrebbero le risorse per condurre guerre o imporre la propria strategia geopolitica, ma manca loro la volontà di potenza (che comporta il patire periodi difficili e il morire in guerra) e soprattutto la consapevolezza che se non si combatte si scompare.

In questa cornice di ampio respiro, ci interessa particolarmente l’ultimo capitolo del libro che è dedicato al mondo della tecnologia, in cui l’autore propone di nuovo un rovesciamento di visione. E’ infatti opinione diffusa che le varie società della Silicon Valley siano i padroni del mondo, i burattinai della politica internazionale, anche americana. Non è così, anzi è il rapporto di forze è da leggere in senso contrario.

Per dimostrare la subalternità della tecnologia alla politica americana Fabbri parte dalla considerazione del commercio marittimo mondiale, condizione necessaria al benessere di Imperi e sudditi. I principali snodi marittimi di Panama, Gibilterra, canale di Sicilia, Suez, Dardanelli, Bab el-Mandeb, Hormuz, Malacca, Bashi sono tutti controllati direttamente o indirettamente dagli Stati Uniti e sono difesi quotidianamente dalle flotte della Marina americana che è più forte di tutte le Marine del mondo messe insieme. Per competere con il potere americano occorrerebbe sostituirsi militarmente alla Marina più forte (impossibile al momento) o crearsi nuove vie come sta tentando la Cina con il progetto della Via della Seta, senza risultati efficaci. Ora, oltre alle merci, negli Oceani e nei suoi colli di bottiglia passano pure i cavi di comunicazione di Internet ed è per questo che la potenza che ha il controllo dei primi domina anche i secondi con tutto ciò che comporta.

La vera chiave per interpretare il rapporto tra tecnologia e politica risiede tuttavia nel fatto essenziale che per attuare la propria volontà di potenza l’Impero ha bisogno di controllare più o meno direttamente la rete dei sudditi, che odiernamente avviene grazie all’avanguardia tecnologica. Ecco la rivoluzione copernicana che Fabbri propone secondo lo schema già profilato nella citazione riportata all’inizio: non si deve credere che le invenzioni che oggi sembrano portare il marchio delle società più affermate – dal telefono cellulare ad internet,  da Apple a Facebook – siano uscite come conigli dal cilindro di grandi personalità creative e visionarie. Esse sono piuttosto la risposta politica inevitabile alla necessità degli Imperi di alimentare la propria volontà di potenza.

I telefoni cellulari sono invenzioni militari che risalgono al bisogno di effettuare comunicazioni satellitari durante la prima guerra del Golfo; Internet è stato inventato negli anni Cinquanta dal Pentagono che necessitava di una rete interna che proteggesse i suoi dati sensibili.

Oggi i più di sette miliardi di telefoni cellulari sommati a Google (che rappresenta il 91% delle ricerche mondiali) e ai social network di Facebook, Instagram, Twitter, Youtube e Pinterest (che raccolgono insieme il 96% degli iscritti mondiali) sono la spina dorsale e il sistema nervoso periferico del Mondo tramite il quale l’Impero americano, come cervello, domina l’intero organismo. Senza Internet il controllo dell’Impero sarebbe faticosissimo da attuare se non impossibile. Invece, attraverso le ricerche su Google e le rivelazioni scritte sui “social”, gratuitamente e spontaneamente, il popolo confessa tutte le sue pulsioni che vengono gelosamente custodite tramite l’Intelligenza artificiale in un archivio che resta soltanto da consultare da chi ne possiede le chiavi. Ecco risolta così la necessità atavica che i potenti hanno sempre avuto di sapere cosa pensa il popolo, in quali direzioni andrebbero i gusti e le inclinazioni dei sudditi e su quali altre direzione invece vanno dirottate. Non servono più informatori, spie o nani sotto le gonne; la parabola in cui si muove la popolazione è scritta chiaramente, basta solo saperla interpretare.

Ma chi è che possiede le chiavi dell’archivio dei desideri e dei pensieri del popolo? Chi è il controllore vero della Rete? Per chi ha un approccio post-storico, ovvero per l’europeo comune, l’America rappresenta ancora il sogno, il prototipo del grande libero mercato. E in questa visione, le multinazionali, ovvero le Big-Tech, sarebbero i veri padroni, posti su un piedistallo economico tanto enorme da guardare dall’alto ogni vincolo o struttura politica e di governo.

Fabbri però manda in frantumi l’incantesimo. Con l’ennesimo ribaltamento svela che la realtà è tutta l’opposto. A partire dai brevetti per arrivare ai temi più scottanti della privacy, della regolamentazione e degli investimenti, la lunga mano dell’apparato pubblico americano domina ovunque. Basta fare due conti: dal lato finanziario, il Ministero della Difesa americano nel 2022 ha speso, sotto la voce “sviluppo e ricerca tecnologica”, 119 miliardi di dollari, più del doppio di quanto hanno speso Apple, Intel e Google sommati insieme; dal lato della privacy, non si può operare contro l’Impero e il caso emblematico della “Cambridge Analytica” con uno Zuckerberg a capo chino a fare ammenda al Congresso degli Stati Uniti ne è iconico paradigma. Infine, sul lato regolamentare, è la politica a tenere sotto scacco i presunti ‘padroni del mondo’ perché è il Governo che ne disegna i confini con le regole antitrust, vedi il progetto di questi giorni di smantellamento del potere di Google; tanto per mostrare chi è veramente a comandare, la squadra più forte nonché l’arbitro del gioco. E questa non fa che replicare quanto, intorno al modo di inquadrare e regolamentare i rapporti di forze, è sempre avvenuto in altri ambiti e ciclicamente: oggi si parla di tecnologia, ieri si parlava di energia (nel 1890, in quello che allora era il business principale, ovverosia il petrolio, gli Stati Uniti attraverso lo Sherman Antitrust Act misero fine a vari monopoli), domani si parlerà di Spazio o chissà cos’altro la lunga mano dell’Impero avrà necessità di fare sua.

Le varie società della Silicon Valley lo sanno bene, devono accettarlo e tentano di cavalcare la dinamica ricambiando il favore. Non è casuale che nel 2022 le cosiddette Big Five, abbiano sborsato in lobbying più del triplo di tutte le grandi banche del paese.

Il libro è stato edito circa un anno fa. Nel frattempo sono accaduti avvenimenti nuovi in questa dinamica tra tecnologia e politica. Con curiosità dobbiamo attendere il prossimo libro per capire come l’autore interpreti il binomio Trump-Musk.

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